mercoledì 30 gennaio 2013

Django Unchained di Q. Tarantino.


C'era più curiosità del solito attorno a questo lavoro di Quentin Tarantino. Il talentuoso regista infatti ha sempre dichiarato il suo amore per i capolavori italiani del genere spaghetti-western. Genere i cui più famosi esponenti sono la trilogia del dollare di Sergio Leone o l'altrettanto noto "Django" di Sergio Corbucci. Per questo motivo risulta quasi naturale chiedersi come Tarantino abbia deciso di approcciarsi al genere. Come al solito, la risposta è 'a modo suo'.
 L'ex dentista di origini tedesche, ora cacciatore di taglie, King Schultz compra la libertà dello schiavo nero Django, in cambio del suo aiuto ad identificare e catturare un gruppo di banditi sul cui capo pende una discreta somma. I due diventano presto colleghi e, prima di separarsi, Schultz decide di aiutare Django nella sua missione: liberare la moglie Broomhilda, schiava presso il bieco proprietario terriero Calvin Candie.
Come dicevo qualche riga più su, Tarantino decide di rapportarsi allo spaghetti-western a modo suo: il suo "Django Unchained" infatti è un esplosivo mix di revenge movie e western, condito con una buona dose di ironia e con l'ormai consueta violenza esagerata (che per quanto assurda risulta anche più sentita del solito in più di un punto). A questo va aggiunto la gran cura riposta nei dialoghi e soprattutto nella delineazione dei personaggi: King Schulz in particolare è davvero ben riuscito, oltre che divinamente interpretato dal sempre più convincente C. Waltz. Tra gli altri attori si distingue L. DiCaprio, un assurdo, odioso e viscido bastardo. La sua esplosione d'ira a trucco scoperto vale da sola il classico prezzo del biglietto. Una menzione va ovviamente fatta anche per J. Foxx, anche se l'impegno richiesto per interpretare il cazzuto Django è inferiore a quello richiesto per altre sue precedenti prove, per S. Lee Jackson, finalmente in un ruolo degno di questo nome, e per il grande D. Johnson, a cui il doppiaggio forse non rende piena giustizia. A tutto questo va aggiunta la regia: d'altronde dietro la macchina da presa vi è sempre un certo Quentin Tarantino. Ed è uno spasso. Tra valanghe di omaggi e citazioni, battute memorabili e situazioni al limite dell'incredibile non vi è davvero di che annoiarsi per le oltre due ore e mezza di durata. Questo malgrado un soggetto piuttosto elementare e una certa frammentarietà che caratterizza alcuni passaggi. Ma quando si arriva alla sparatoria nel (quasi) finale non si può fare altro che essere rapiti dal sangue che colora le pareti e dai proiettili che devastano i corpi. Si vede poi che il regista si è divertita tantissimo a girare la sua storia su Django.
Come se questo non fosse abbastanza, c'è anche da fare un applauso alla colonna sonora, un riuscito mix di vecchie canzoni western, omaggi ai capisaldi del genere e pezzi un po' più moderni. Se già uno spettatore occasionale non potrà non rimanere colpito, credo che un appassionato potrà solo andare in brodo di giuggiole.
Come si evince chiaramente da quanto ho scritto, ritengo "Django Unchained" l'ennesimo grande film di un regista che non ha mai sbagliato un colpo. Non è il suo lavoro migliore - che continuo a ritenere "Pulp Fiction" (ah, come sono banale) - ma... cazzo che roba!

mercoledì 9 gennaio 2013

The Master di P. T. Anderson.

 
Dopo qualche mese di assenza, torno per celebrare l'uscita del nuovo film di P. T. Anderson, un regista che ha ampiamente dimostrato di sapere cosa fare con una macchina da presa in mano. Tra i suoi lavori più noti ci sono infatti "Magnolia" e soprattutto "Il petroliere", film con cui "The Master" ha più di un punto di contatto.
Freddie Quell è un soldato americano che torna in patria al termine della Seconda Guerra Mondiale. Le atrocità del conflitto, unite al continuo consumo di alcolici distillati personalmente, hanno lasciato su di lui alcuni segni indelebili sia dal punto di vista fisico che da quello mentale. E questi squilibri lo portano volente o nolente a cambiare un lavoro dopo un altro, sino a quando viene a contatto con un personaggio ai suoi antipodi, ovvero Lancaster Dodd, leader di un bizzarro culto chiamato La Causa.
Che il film sia in parte ispirato alle ''gesta'' del fondatore di Scientology L. Ron Hubbard, è chiaro sin dal principio. E del resto Anderson non si preoccupa certo di nasconderlo, visti i continui riferimenti che il maestro da nel corso delle due ore e mezza di durata (la discussione con il contestatore che avviene nella prima casa visitata ne è un chiaro esempio). Ma il fulcro della pellicola non è questo. Come e più che ne "Il petroliere", ci viene mostrato il titanico incontro/scontro tra due personalità diametralmente opposte. Il primo, Freddie Quell, un uomo irrimediabilmente segnato nello spirito e nel corpo, vittima delle sue pulsioni più violente e primitive e incapace di rapportarsi pienamente con il mondo. Il secondo, Lancaster Dodd, carismatico leader di un culto che diventa sempre più importante, eccezionale incantatore di persone e magistrale manipolatore della realtà. E malgrado tutto, tenendo fede al detto, i due opposti si attraggono. Almeno inizialmente. In principio infatti i due personaggi si dimostrano quasi complementari: Freddie Quell trova finalmente una guida e Lancaster Dodd un fedele seguace su cui può testare e mettere in pratica le sue teorie. Ed è un piacere vedere queste due personalità mastodontiche discutere e rapportarsi. La scena della prima seduta sulla barca in questo senso è magistrale sia dal punto di vista recitativo sia dal punto di vista registico e da sola vale il prezzo del biglietto. Poi le differenze emergono in maniera più chiara e netta, le basi su cui è stato costruito il rapporto crollano sotto i colpi della violenza fisica e della volontà di predominio e i personaggi si dimostrano per quello che sono.
E qui arriviamo al piatto forte, ovvero la prova dei due attori protagonisti. J. Phoenix nei panni di Freddie Quell, P. S. Hoffman in quelli di Lancaster Dodd. Quest'ultimo in particolare dimostra ancora una volta tutto il suo istrionismo e risulta quanto mai convincente come egogentrico leader, affascinante oratore e abile manipolatore di persone e realtà, in grado di crearsi un seguito devoto e fedele e di raccontare valanghe di frottole senza alcun tentennamento (una sorta di Berlusconi insomma...). Ma è soprattutto il primo che lascia stupefatti per qualità di recitazione e immedesimazione nel personaggio: gobbo, storto, il volto contratto in una terrificante smorfia, sempre pronto ad esplodere da un momento all'altro. Cosa che puntualmente avviene. Ed è a questo punto che emerge anche il talente del regista, in grado di filmare i loro scontri verbali in maniera neutra, lasciando ai contendenti il giusto spazio e non mettendo né l'uno né l'altro in una posizione dominante. Un'ultima nota sul cast: benché in parte oscurata dai due protagonisti, anche Amy Adams offre una grande prova nei panni della moglie di Dodd, inzialmente solo fedele al marito ma con il proseguio del film sempre più radicale nel sostenere i principi del culto.
E' innegabile che il film nel suo complesso non sia facilmente fruibile dalla massa ma per il sottoscritto i già citati 140 minuti di durata sono volati, vuoi per l'abile regia, vuoi per la straordinaria prova dei due attori protagonisti. E se siete amanti del cinema, quello vero, non credo possiate essere in disaccordo con me.