sabato 5 ottobre 2013

Bling Ring di S. Coppola.


Devo ammettere che ho apprezzato tutti i - pochi - film realizzati da Sofia Coppola sino ad ora. Se questo è facile farlo con quella perla di "Lost in Translation", è invece più difficile con il tanto bistrattato "Marie Antoinette". In quest'ultimo, seppur in misura minore, le qualità e i tratti distintivi della regista ci sono comunque e nel complesso non sono rimasto deluso. Diverso è il discorso invece per "Somewhere", bellissimo film che purtroppo in molti non hanno saputo (potuto?) apprezzare. Tutto questo per dire che Sofia Coppola mi piace e che, incurante delle critiche, avevo grandi aspettative per il suo "Blind Ring".
Ispirato all'articolo "The Suspects Wore Louboutins" di Nancy Jo Sales, il film racconta la vera storia della banda di cinque adolescenti - ribattezzata dai media americani "The Bling Ring" - che negli scorsi anni ha messo a segno una serie di colpi tra le colline di Hollywood. Tra le loro vittime figurano VIP dello star system americano del calibro di Orlando Bloom, Paris Hilton e Lindsay Lohan. Il totale delle loro rapine è stato stimato nell'ordine dei 3 milioni di dollari in beni di lusso.
La prima cosa che stupisce di questo film è l'inverosimiglianza della vicenda. Non nego che la vita nella Hollywood per bene sia quasi del tutto priva di rischi ma fatico a credere che bolidi da migliaia e migliaia di dollari siano parcheggiati lungo la strada con portiere aperte, cruscotti contenenti portafogli pieni di contante e sacchetti di cocaiana; che Paris Hilton lasci le chiavi di casa sotto lo zerbino e che non si accorga dei continui furti perpetrati ai suoi danni; che una famiglia parta per la Giamaica lasciando aperte alcune porte della propria casa. Forse è vero che i ragazzi non abbiano mai spaccato un vetro ma alcuni passaggi del film paiono del tutto inverosimili.
Ma questo in qualche modo si può accettare. Il fulcro della pellicola non è certo quello. La volontà della Coppola rimane la medesima di altri suoi film: raccontare delle vicende reali nel modo più neutrale possibili, senza perdersi in inutili giudizi personali o cercando possibili cause e/o conseguenze. Ecco quindi che lo spazio è tutto lasciato a questi giovani corrotti dal fascino del già citato star system, vittime (quasi) inconsapevoli di una società che adora falsi idoli dorati, in cui, per citare il sottotitolo italiano di una riuscita commedia americana di qualche anno fa, 'Se non ci sei, non esisti'. Il loro unico modo di vivere, tra genitori assenti e/o ingenui, è di farsi notare dagli altri, magari ricalcando i comportamenti più disdicevoli dei propri miti, magari inseguendo sogni senza averne le capacità. Ecco quindi i continui scatti postati su Facebook, per dimostrare di esserci, di saperci fare. E, nonostante (o proprio per?) le discutibili azioni di cui si rendono protagonisti, ecco che i loro coetani li ammirano e aprono fan club virtuali per sostenerli. Una tristezza inaudita che però ben ricalca la situazione della società moderna.
A questo punto parrebbe che il film sia riuscito. Purtroppo però il modo in cui i fatti vengono narrati è del tutto anonimo e privo dello stile che da sempre caratterizza le pellicole della regista. Un paio di scene degne di nota (tra cui il furto nella casa a specchi girato in un unico piano sequenza) su quasi 90 minuti di durata totale sono davvero poche. Il resto è girato in maniera piatta, quasi senza voglia.
E a questo aggiungiamo poi il terribile cast, la cui punta di diamante avrebbe dovuto essere Emma Watson. Dico avrebbe perchél'unica parola con cui si può definire la sua prova è atroce.Non che il resto raggiunga la sufficienza del resto. Riponevo qualche speranza in Taissa Farmiga, dopo averla apprezzata nella prima stagione di "American Horro Story" ( e aver sperata che la sorella Vera le avesse passato un po' di talento), ma anche qui le mie aspettative sono state disattese.
In altre parole "Bling Ring" manca di un'anima, quella che Sofia Coppola ha saputo spientemente inserire nei suoi film precedenti e che l'ha resa un'affermata regista. Un netto passo falso quindi, che si spera sia presto dimenticato con il prossimo lavoro.

domenica 4 agosto 2013

Pacific Rim di G. Del Toro.


Ora, è giusto promuovere il 3D perché garantisce maggiori guadagni ma è possibile che occorra aspettare tre settimane per vederne la controparte normale ad un orario inferiorie alle 23.00? In qualche multisala probabilmente sì. Se non altro, l'attesa è stata pienamente ripagata e tutte le aspettative sono state soddisfatte. E d'altronde da una squadra contenente Guillermo Del Toro, Idris Elba, Charlie Hunnam e il prode Ron Perlman, in salsa "Tengen Toppa Gurren Lagann", era il minimo che potessi aspettarmi.
In un futuro prossimo, la Terra è sotto attacco alieno. Da un portale situato nelle profondità marine dell'oceano Pacifico infatti emergono esseri mostruosi giganteschi, denominati Kaiju. La loro forza distruttiva è enorme e per farvi fronte tutti i popoli si uniscono nella produzione di enormi robot corazzati, i Jaeger, comandati da una coppia di piloti umani in collegamento neurale. Grazie ad essi gli invasori vengono sconfitti e i loro attacchi si fanno sempre più radi e sempre meno pericolosi. Sino a quando una nuova generazione di Kaiju appare e riesce a sconfiggere i più potenti Jaeger costruiti. Prossima alla disfatta, l'umanità deve trovare una soluzione definitiva al problema.
Grazie a Dio, non c'era un Michael Bay qualunque dietro la macchina da presa o alla sceneggiatura. Il rischio di ridurre tutto ad un "Transformers" qualunque infatti era decisamente alto. Guillermo Del Toro non solo è riuscito ad allontanarsi dalla spazzatura di cui sopra ma anche a mettere in piedi un buon action movie, ricco di qualsiasi cosa lo spettatore possa desiderare. Intendiamoci, la solfa è sempre la stessa: ci sono i buoni, i cattivi, gli atti eroici, i sacrifici, i siparietti comici e l'inevitabile finale. Nessuna variazione di fondo. Ma il tutto è reso in maniera onesta e piacevole, messo in scena da un regista capace e capace di intrattenere per oltre due ore senza il pericolo di annoiare. Qualcuno lamenta un inizio un po' lento e verboso. E forse è vero. Una volta che iniziano a muoversi le mani però non si può che affondare una mano nei pop corn e godersi il film. E, a tal proposito, la resa scenica è davvero di ottimo livello: i combattimenti sono spettacolari, con un tripudio di esplosioni, distruzioni e botte da orbi, tutto reso in maniera chiara, precisa e molto coinvolgente (Bay, hai preso appunti?). Il design tanto dei Kaiju che dei Jaeger è riuscito e rievoca senza sforare nel plagio i film (i vari "Godzilla" & co. di origine nipponica) e gli anime (ad esempio il già citato e mai troppo lodato "Tengen Toppa Gurren Lagann", divenuto anche un riuscito manga) presi a fonte di ispirazione.
Anche per quanto riguarda il cast il discorso è positivo: Charlie Hunnam (il Jax dello splendido "Sons of Anarchy"), Idris Elba ("Luther") e Rinko Kikuchi ("Babel") si dimostrano tutto sommato adatti al ruolo e credibili nei rispettivi panni. E poi c'è Ron Perlman: è un bullo e questa basta.
Non c'è che dire. Il lavoro svolto da Guillermo Del Toro per "Pacific Rim" è ammirevole e dimostra come sia possibile realizzare un film di puro intrattenimento senza per questo venire a pesanti compromessi in fatto di sceneggiatura e qualità complessiva. Una volta tanto quindi si può spegnere il cervello e godersi sane scazzottate tra mostri e robot.

sabato 20 luglio 2013

World War Z di M. Forster.

 
Ad essere sinceri non avevo grosse aspettative per questo film. Malgrado il gran dispendio di denaro in pubblicità e promozioni e malgrado gli incassi di tutto rispetto, non ho mai sentito il bisogno compulsivo di vederlo (a differenza di pellicole come "Prometheus", per dirne una). Ed è per questo che la mia recensione giunge con qualche settimana di ritardo rispetto all'uscita nelle sale.
Gerry Lane (B. Pitt) è un ex impiegato delle Nazioni Unite, ritiratosi a vita privata per stare insieme alla propria famiglia. Vive a Philadelpia e si trova proprio in una delle sue strade quando scoppia il caos: un mordo non identificato sta contagiando la popolazione tramutandola in famelici zombie. Zombie che non esitano ad attaccare gli esseri umani. Gerry riesce a raggiungere insieme alla propria famiglia la salvezza su di una nave del governo ma dovrà immediatamente tornare in servizio per trovare una soluzione al contagio mondiale.
Insomma. Non posso negare di essermi divertito per due ore piene e che la noia non mi abbia sfiorato neppure per un secondo ma diversi sono gli aspetti che destano più di una perplessità e che di fatto rovianano quello che poteva più di un film sufficiente. Primo fra tutti la sceneggiatura: non conosco il romanzo da cui è tratta quindi non so se il problema risieda alla radice (anche se non credo) ma... quante forzature e buchi! Se non ho disprezzato affatto - cosa che invece molti hanno fatto - trovate come il decimo uomo, è impossibile non rimanere basiti di fronte alla fortunosa fuga della famiglia dall'orda di zombi: nemmeno un graffio, sopravvissuti che consigliano medicine per l'asma, persone barricate in casa che vengono attaccate un secondo dopo che i protagnisti se ne son andati, sangue infetto ingerito senza alcuna conseguenza. E anche proseguendo con la pellicola la situazione non migliora. L'attacco ad Israele e l'incidente aereo - che nomino senza entrare nei dettagli per ragioni di spoiler - credo che siano l'apice. Ora, va bene la sospensione dell'incredulità ma queste sono forzature belle e buone. Senza contare poi che tutta la vicenda è pervasa da un buonismo a tratti irritante e che mi ricorda un po' lo Spielberg de "La Guerra dei Mondi".
C'è poi il discorso zombie: ora io non sono uno di quei fanatici che ritengono che lo zombie sia solo quello di Romero e che ritengono una bestemmia se questi superi i 5km/h ma quelli di WWZ non sono non-morti. Chiamateli infetti, rabbiosi o in qualunque altro modo ("28 Giorni Dopo"?) ma definirli zombie proprio no. Anche qui però non so se il problema risiede nel libro oppure se è il passaggio nel mondo del cinema il responsabile.
Come ho già detto e nonostante tutto quello che ho appena scritto, il film risulta piacevole. La storia tra alti e bassi si lascia seguire e regala alcuni passaggi molto riusciti, come quello ambientato nel centro medico in Scozia. Visivamente poi è molto valido: penso soprattutto alle inquadrature dall'alto quando il morbo inizia a diffondersi oppure quando gli zombie attaccano il muro eretto da Israele, molto efficaci nel rendere rispettivamente lo scoppio del caos e la ferocia degli infetti.
In definitiva credo che era lecito attendersi di più. Anche le mie basse aspettative infatti non sono state soddisfatte a pieno. I difetti ci sono, alcuni sono grossolani e neppure lo spettatore meno attento non potrà che notarne la presenza. E nonostante ciò, io credo che un'occhiata - magari aspettando il suo passaggio su Sky - la meriti.

sabato 4 maggio 2013

Iron Man 3 di S. Black.


Bene o male dovrei aver visto tutti i film Marvel usciti negli ultimi 15 anni e sono abituato ad alti e bassi. Malgrado nessuno possa ambire a livelli di eccellenza (come invece è accaduto con la trilogia di Batman targata di C. Nolan), ci sono pellicole che divertono e lasciano lo spettatore soddisfatto per quello che promettono. Tra i più recenti penso ad esempio a "X-Men - Le origini" o a "L'incredibile Hulk". Altri invece sono pessimi senza possibilità di appello ("I Fantastici 4" e "Spider-Man 3" su tutti). Tra questi estremi, "Iron Man" e relativo seguito non mi hanno mai particolarmente entusiasmato. Malgrado li abbia visti entrambi almeno un paio di volte non sono mai riuscito ad apprezzarli. E questo terzo episodio? Manterrà lo stesso andazzo dei due predecessori o sarà migliore? O peggiore? L'ultima è la risposta esatta.
 Dopo i fatti di New York narrati nel discreto "The Avengers", Iron Man deve ora vedersela con alcuni fantasmi del suo passato e con un nuovo temibile nemico, il Mandarino. Questi altri non è che un terrorista che odia gli Stati Uniti e che, attraverso una serie di attentati, punta a uccidere il presidente della nazione. Prima di fare ciò però, attacca direttamente la residenza del protagonista e la distrugge. Senza più le sue attrezzature e armature e vittima di crescenti crisi di panico, Tony Stark dovrà trovare la forza di regire e di proteggere i suoi cari.
Bisogna ammetterlo. Le premesse e l'inizio del film non sono affatto male. Certo, l'idea di un Iron Man senza armatura che deve dimostrare di valere più del metallo che indossa sa un po' di ultima spiaggia (possibile che in tutta la storia del personaggio non ci sia qualcosa di altrettanto valido?) ma va bene. Non è certo questo il problema. Anche l'ingresso del Mandarino (B. Kingsley) è di tutto rispetto. Un antagonista di quelli che fanno paura e che per una volta ti fa pensare che saranno lacrime e sangue prima di vederlo sconfitto. Tutto bene, quindi? Assolutamente no. Dopo che la super villa di Tony Stark viene distrutta con un attacco a dir poco devastante (ma che al protagonista e al personaggio interpretato da R. Hall comporta qualche graffio e poco più), il film si trasforma in una parabola discendente che culmina in una delle situazioni più imbarazzanti che io abbia mai visto. Diavolo, non conoscola storia originale ma nei fumetti il Mandarino non viene trattato in quel modo! Senza contare poi che Aldrich Killian (G. Pearce) non ha un minimo del suo carisma. Oltre a questo poi c'è l'ormai usuale tendenza a mettere tonnellate di carne al fuoco senza poi mostrare la minima intenzione a trattarla come invece meriterebbe. E qui di esempi se ne possono fare in abbondanza: dal colonnello James Rhodes con il discorso War Machine/Iron Patriot - un po' triste quest'ultimo ma ha un'effettiva corrispondenza nell'universo Marvel - a Maya Hanse (la già citata R. Hall) che non è più di una comparsa; dalla figura del vicepresidente e del bambino con lo spara-patate (!) all'esagerata accozzaglia dello scontro finale. E potrei andare avanti. Qualcuno potrebbe obbiettare che 'Ehi, si tratta di un film su Iron Man!' ma un minimo di cura sia in fase di sceneggiatura sia in fase di realizzazione è necessaria anche in questi casi. Di contorno a tutto ciò abbiamo ovviamente i soliti siparietti comici che se in alcuni casi sono piacevoli, nel finale si fanno sempre più irritanti.
In alcuni frangenti avrò forse esagerato ma i difetti elencati ci sono. Non si può negare. E resta poi il fatto che l'insopportabile siparietto comico di cui sopra ha letteralmente demolito quello che forse è uno dei più riusciti villain di sempre dell'universo dell'uomo di ferro.

sabato 13 aprile 2013

Come un Tuono di D. Cianfrance.


La mia probabilmente rimarrà una crociata contro i mulini a vento ma... Se il titolo originale del film è "The Place Beyond the Pines" non è possibile intitolarlo "Come un tuono" solo perché fa figo (leggi 'attira i patiti di motori', complice anche l'ingannevole trailer) e/o un personaggio pronuncia le tre parole. Chiusa parentesi.
Luke è un giovane che lavora in un parco divertimenti itineranre come stuntman. Il suo numero è il cerchio della morte insieme alla sua moto. Una sera, dopo la sua esibizione, incontra la sua vecchia fiamma Romina da cui viene presto a sapere di aver avuto un figlio. Per dare un futuro al piccolo, lascia il suo lavoro ed inizia a rapinare banche con un certo successo. Fino a quando la sua strada si incrocia con quella dell'agente di polizia Avery Cross.
Comincio col dire che le righe che avete appena letto sulla trama sono solo un accenno a quello di cui tratta la pellicola. Spendere qualche parola in più però comporterebbe rovinare a chiunque non abbia visto il film buona parte del divertimento, nonostante i circa 140 minuti di durata. 140 minuti che, malgrado quanto vi apprestiate a leggere non mi hanno in alcun modo annoiato. Il film ha più di un problema qua e là ma non ho mai sentito il bisogno di guardare l'orologio. Ma andiamo con ordine.
"Come un tuono" è diviso in tre parti ben distinte, ognuno resa in maniera diversa. I primi 40/50 minuti sono davvero ben riusciti: ritmo e regia frenetici, personaggi ben caratterizzati e una sceneggiatura magari non molto originale ma comunque piacevole. Qui molto è fatto da R. Gosling che, dopo "Drive" (molti i richiami al suo protagonista), offre l'ennesima grande prova; il suo destreggiarsi tra neo padre desideroso di ricostruirsi una famiglia e spietato rapinatore di banche ha davvero dell'incredibile. Al suo fianco c'è una E. Mendes decisamente meno sensuale del solito (si pensi ad esempio a "Last Night") ma piuttosto credibile nei panni della ragazza-madre disposta a tutto per la sua famiglia ma ancora affascinata da Luke. Anche la regia offre alcuni passaggi degni di nota come la corsa in moto in mezzo agli alberi. Poi le cose cambiano in modo piuttosto radicale: da dramma con forti tinte action si passa ad un dramma interiore dove sale in cattedra un B. Cooper tutto sommato discreto ma che non riesce in alcun modo a tenere testa a R. Gosling. La differenza tra le due parti è piuttosto netta e all'inizio si fa un po' fatica ad accettare questo brusco cambio di ritmo. Senza contare poi che il tema dell'elaborazione del dolore (indiretto in questo caso) non è reso in maniera proprio perfetta. E il motivo di questo è da ricercare in un difetto che contraddistingue tutto il film, ma che nella prima parte si nota meno, ovvero la pessima resa di alcuni passaggi. Andando più nello specifico sto parlando di scene fondamentali trattate con troppa leggerezza, discutibile prese di posizione da parte di alcuni personaggi e bruschi cambi di idee dei protagonisti. E questo lo si nota ancora di più nella terza parte, che assume i connotati di racconto di formazione. A questo problema si aggiunge poi un finale che mi ha lasciato piuttosto perplesso: come ha detto qualcuno, un massacro alla "The departed" mi sarebbe sembrato più che giusto. Ma non dico altro. Chi vedrà o ha visto, capirà.
Dopo tutta questo discorso, la risposta alla domanda 'Ma allora lo vado a vedere o no?' è sì. Come avete appena letto, i difetti ci sono. Alcuni gravi, alcuni meno. Ma nel complesso credo che un'occhiata la meriti senza ombra di dubbio. Se non altro per ammirare uno degli attori più interessanti che ci sono in circolazione in questo periodo.

sabato 9 marzo 2013

Upside Down di J. Solanas.


 Mi sono imbattuto in alcune opinioni negative qualche minuto dopo aver cliccato sul tasto prenota della biglietteria online del solito cinema. Malgrado le abbia lette una riga sì e una no per non rovinarmi il film, devo dire che negative è dir poco. Si è trattato infatti di stroncature in toto, cosa che ha demolito le aspettative che mi ero creato nei giorni passati. L'acquisto però era già stato fatto e quindi mi sono recato al cinema. E, a conti fatti, le recensioni lette non sono molto distante dal mio giudizio.
In un universo parallelo, Adam e Eden sono due giovani che vivono su due pianeti diversi e vicini, ognuno dominato dalla propria forza di gravità. Il mondo di sotto, dove si trova Adam, è povero e decadente; il mondo di sopra, dove si trova Eden, è invece ricco e prosperoso. L'unico collegamento tra i due pianeti è una torre creata dalla società TransWorld, deputata all'estrazione di petrolio dal mondo di sotto. Ovviamente il passaggio dall'uno all'altro è assolutamente proibito e altrettanto ovviamente i due giovani si innamorano e cercano di venire a contatto. Durante il loro ultimo incontro vengono però scoperti e nel tentativo di fuga, Eden cade e viene ritenuta morta. Dieci anni dopo Adam la vede ad una trasmissione televisiva e subito si mette sulle sue tracce sfidando leggi e gravità.
Dal punto di vista visivo "Upside Down" è degno di nota. Le varie ambientazioni infatti, unite ad un'atmosfera che in alcuni punti richiama alcuni classici di fantascienza, si dimostrano sin dall'inizio piuttosto suggestive. Basti pensare ad esempio ai passaggi ambientati nell'ufficio al piano 0, con impiegati che lavorano su entrambi i lati, oppure a quelli situati sulle alture quando Adam e Eden si incontrano. Sotto questo aspetto insomma il lavoro è stato più che buono. Qualcuno potrà lamentare un eccessivo utilizzo di CG che in alcuni punti da una sensazione di posticcio ma in linea di massima il film visivamente si mantiene su livello più che buoni. Il vero problema è che togliendo questo aspetto "Upside Down" ha da offrire poco/nulla. E il perchè di tutto questo è da ricercare principalmente nella terribile sceneggiatura. Malgrado l'idea di fondo appaia piuttosto interessante, la resa complessiva è del tutto insufficiente. Buchi enormi, passaggi poco chiari e tagli improvvisi la fanno da padroni e in poco tempo demoliscono anche il più positivo degli spettatori. Quello che resta è una storiella d'amore dal finale scontato e la fastidiosa sensazione di una grande occasione mancata. E dire che i primi minuti erano così promettenti (anche se eccessivamente didascalici): l'introduzione dell'ambientazine, l'enunciazione delle tre leggi che governano il mondo, la presentazione dei due mondi. Poi tutto va alla deriva. In particolar modo le tre leggi vengono se non del tutto ignorate, almeno piegate alla necessità della storia (ma allora che senso ha introdurle come verità assolute?). Senza contare poi le innumerevoli situazioni assurde che si verificano nel corse dell'ora e cinquanta di durata: parti del corpo non soggette alla gravità, antimateria trafugata quasi fossero noccioline, calore disperso dai tessuti, fino ad arrivare - attenti allo spoiler - ad Eden che rimane incinta in chissà quale modo. Tutto questo ripetuto più e più volte. A fronte di questo scempio anche la presenza di K. Dunst (che la visione di "Melancholia" mi ha fatto totalmente riconsiderare) non può nulla.
Dai, ormai avrete capito. Statene alla larga e investite tempo e soldi in qualcosa di meno squallido.

mercoledì 30 gennaio 2013

Django Unchained di Q. Tarantino.


C'era più curiosità del solito attorno a questo lavoro di Quentin Tarantino. Il talentuoso regista infatti ha sempre dichiarato il suo amore per i capolavori italiani del genere spaghetti-western. Genere i cui più famosi esponenti sono la trilogia del dollare di Sergio Leone o l'altrettanto noto "Django" di Sergio Corbucci. Per questo motivo risulta quasi naturale chiedersi come Tarantino abbia deciso di approcciarsi al genere. Come al solito, la risposta è 'a modo suo'.
 L'ex dentista di origini tedesche, ora cacciatore di taglie, King Schultz compra la libertà dello schiavo nero Django, in cambio del suo aiuto ad identificare e catturare un gruppo di banditi sul cui capo pende una discreta somma. I due diventano presto colleghi e, prima di separarsi, Schultz decide di aiutare Django nella sua missione: liberare la moglie Broomhilda, schiava presso il bieco proprietario terriero Calvin Candie.
Come dicevo qualche riga più su, Tarantino decide di rapportarsi allo spaghetti-western a modo suo: il suo "Django Unchained" infatti è un esplosivo mix di revenge movie e western, condito con una buona dose di ironia e con l'ormai consueta violenza esagerata (che per quanto assurda risulta anche più sentita del solito in più di un punto). A questo va aggiunto la gran cura riposta nei dialoghi e soprattutto nella delineazione dei personaggi: King Schulz in particolare è davvero ben riuscito, oltre che divinamente interpretato dal sempre più convincente C. Waltz. Tra gli altri attori si distingue L. DiCaprio, un assurdo, odioso e viscido bastardo. La sua esplosione d'ira a trucco scoperto vale da sola il classico prezzo del biglietto. Una menzione va ovviamente fatta anche per J. Foxx, anche se l'impegno richiesto per interpretare il cazzuto Django è inferiore a quello richiesto per altre sue precedenti prove, per S. Lee Jackson, finalmente in un ruolo degno di questo nome, e per il grande D. Johnson, a cui il doppiaggio forse non rende piena giustizia. A tutto questo va aggiunta la regia: d'altronde dietro la macchina da presa vi è sempre un certo Quentin Tarantino. Ed è uno spasso. Tra valanghe di omaggi e citazioni, battute memorabili e situazioni al limite dell'incredibile non vi è davvero di che annoiarsi per le oltre due ore e mezza di durata. Questo malgrado un soggetto piuttosto elementare e una certa frammentarietà che caratterizza alcuni passaggi. Ma quando si arriva alla sparatoria nel (quasi) finale non si può fare altro che essere rapiti dal sangue che colora le pareti e dai proiettili che devastano i corpi. Si vede poi che il regista si è divertita tantissimo a girare la sua storia su Django.
Come se questo non fosse abbastanza, c'è anche da fare un applauso alla colonna sonora, un riuscito mix di vecchie canzoni western, omaggi ai capisaldi del genere e pezzi un po' più moderni. Se già uno spettatore occasionale non potrà non rimanere colpito, credo che un appassionato potrà solo andare in brodo di giuggiole.
Come si evince chiaramente da quanto ho scritto, ritengo "Django Unchained" l'ennesimo grande film di un regista che non ha mai sbagliato un colpo. Non è il suo lavoro migliore - che continuo a ritenere "Pulp Fiction" (ah, come sono banale) - ma... cazzo che roba!

mercoledì 9 gennaio 2013

The Master di P. T. Anderson.

 
Dopo qualche mese di assenza, torno per celebrare l'uscita del nuovo film di P. T. Anderson, un regista che ha ampiamente dimostrato di sapere cosa fare con una macchina da presa in mano. Tra i suoi lavori più noti ci sono infatti "Magnolia" e soprattutto "Il petroliere", film con cui "The Master" ha più di un punto di contatto.
Freddie Quell è un soldato americano che torna in patria al termine della Seconda Guerra Mondiale. Le atrocità del conflitto, unite al continuo consumo di alcolici distillati personalmente, hanno lasciato su di lui alcuni segni indelebili sia dal punto di vista fisico che da quello mentale. E questi squilibri lo portano volente o nolente a cambiare un lavoro dopo un altro, sino a quando viene a contatto con un personaggio ai suoi antipodi, ovvero Lancaster Dodd, leader di un bizzarro culto chiamato La Causa.
Che il film sia in parte ispirato alle ''gesta'' del fondatore di Scientology L. Ron Hubbard, è chiaro sin dal principio. E del resto Anderson non si preoccupa certo di nasconderlo, visti i continui riferimenti che il maestro da nel corso delle due ore e mezza di durata (la discussione con il contestatore che avviene nella prima casa visitata ne è un chiaro esempio). Ma il fulcro della pellicola non è questo. Come e più che ne "Il petroliere", ci viene mostrato il titanico incontro/scontro tra due personalità diametralmente opposte. Il primo, Freddie Quell, un uomo irrimediabilmente segnato nello spirito e nel corpo, vittima delle sue pulsioni più violente e primitive e incapace di rapportarsi pienamente con il mondo. Il secondo, Lancaster Dodd, carismatico leader di un culto che diventa sempre più importante, eccezionale incantatore di persone e magistrale manipolatore della realtà. E malgrado tutto, tenendo fede al detto, i due opposti si attraggono. Almeno inizialmente. In principio infatti i due personaggi si dimostrano quasi complementari: Freddie Quell trova finalmente una guida e Lancaster Dodd un fedele seguace su cui può testare e mettere in pratica le sue teorie. Ed è un piacere vedere queste due personalità mastodontiche discutere e rapportarsi. La scena della prima seduta sulla barca in questo senso è magistrale sia dal punto di vista recitativo sia dal punto di vista registico e da sola vale il prezzo del biglietto. Poi le differenze emergono in maniera più chiara e netta, le basi su cui è stato costruito il rapporto crollano sotto i colpi della violenza fisica e della volontà di predominio e i personaggi si dimostrano per quello che sono.
E qui arriviamo al piatto forte, ovvero la prova dei due attori protagonisti. J. Phoenix nei panni di Freddie Quell, P. S. Hoffman in quelli di Lancaster Dodd. Quest'ultimo in particolare dimostra ancora una volta tutto il suo istrionismo e risulta quanto mai convincente come egogentrico leader, affascinante oratore e abile manipolatore di persone e realtà, in grado di crearsi un seguito devoto e fedele e di raccontare valanghe di frottole senza alcun tentennamento (una sorta di Berlusconi insomma...). Ma è soprattutto il primo che lascia stupefatti per qualità di recitazione e immedesimazione nel personaggio: gobbo, storto, il volto contratto in una terrificante smorfia, sempre pronto ad esplodere da un momento all'altro. Cosa che puntualmente avviene. Ed è a questo punto che emerge anche il talente del regista, in grado di filmare i loro scontri verbali in maniera neutra, lasciando ai contendenti il giusto spazio e non mettendo né l'uno né l'altro in una posizione dominante. Un'ultima nota sul cast: benché in parte oscurata dai due protagonisti, anche Amy Adams offre una grande prova nei panni della moglie di Dodd, inzialmente solo fedele al marito ma con il proseguio del film sempre più radicale nel sostenere i principi del culto.
E' innegabile che il film nel suo complesso non sia facilmente fruibile dalla massa ma per il sottoscritto i già citati 140 minuti di durata sono volati, vuoi per l'abile regia, vuoi per la straordinaria prova dei due attori protagonisti. E se siete amanti del cinema, quello vero, non credo possiate essere in disaccordo con me.